Trovarsi e ritrovarsi

Entro nel solito bar. L’unico, a dire il vero. Seduti a due tavolini rotondi, Aloisio e Tex.
Aloisio mi chiama e mi dice, ermetico:

– Mario,  io e  Tex teniamo il manico a sinistra!

Rimango un attimo interdetto, anche se conosco il soggetto e mi aspetto qualunque cosa. Sarà una metafora a sfondo erotico? Un’intima rivelazione anatomica di cui avrei fatto volentieri a meno? E in questo caso, che ne sa Aloisio di dove porta il manico Tex? L’amico capisce che non ho capito…

– Il manico del bicchiere di birra. Lo teniamo a sinistra. E’ un gesto politico!

Guardo ancora e vedo in effetti che i loro boccali hanno il manico girato a sinistra, benché né Aloisio né Tex siano mancini.

Certo che ne conosco, di fuori di testa!

L’ennesimo raduno dei Fuori di Testa, come informalmente ci siamo definiti, si è tenuto ieri, 2 dicembre 2007, a Firenze.
Una bella giornata, almeno dal punto di vista emotivo, ché il cielo è rimasto grigio e piovigginoso tutto il giorno. Ma eravamo al chiuso, in una sala affittata per l’occasione.
L’elenco dei presenti compare in modo dettagliato in QUESTO POST di Monì (MonicaMarghetti), è lì che rimando gli interessati.
Questa volta non farò un resoconto circostanziato, andrò piuttosto a ruota libera.

Come ogni volta il raduno è l’occasione per ritrovare amici lontani, con cui per settimane o mesi si è comunicato con mezzi elettronici, e per trovarne di nuovi, persone di cui tutto quello che sappiamo è espresso da quanto scrivono sui blog.
Trovarsi e ritrovarsi, due momenti di grande bellezza, due impatti emotivi diversi.
Per la maggior parte siamo tutte persone affettuose, quindi quando incontriamo chi è da tempo nostro amico inizia con sinceri e forti abbracci, quasi a volerci ricordare che siamo persone in carne ed ossa, non fantasmi su un monitor.
E poi ci sono le persone che non abbiamo mai visto, a volte neppure mai sentito. Ogni volta è come una mattina di Natale per i bimbi: via l’involucro del blog, troviamo la sorpresa di volti nuovi, di voci nuove. Di modi di essere nuovi.
Una punta di imbarazzo… ma siamo allenati, sappiamo che poi passa, che ognuno a suo modo e a suo tempo troverà modo di rilassarsi, di aggregarsi. L’importante è l’apertura reciproca, senza forzature, senza "doveri". E così è stato.

Come sempre, a semplificare le cose, a unire, è il momento conviviale. Nella sala in cui ci siamo trovati sono stati apparecchiati tavoli e tavolini e si è tentato di organizzare la distribuzione di ottimo cibo. L’organizzazione ha dovuto fare i conti con una certa tendenza all’anarchia, ma direi che la cosa ha aumentato il divertimento. Mentre si mangiava si sono formate e sciolte per poi riformarsi di nuovo in modo differente combinazioni di persone con argomenti comuni.
I convenuti erano poco meno di una ventina, era inevitabile che le conversazioni si distribuissero in piccoli gruppi. Ma continue migrazioni da un tavolo all’altro hanno reso permeabili fra loro questi gruppi, facendo fluire i discorsi da un capo all’altro.
Poi, è inevitabile che sorgano preferenze di argomenti e persone. Ma ho percepito il nascere di un affetto reciproco e diffuso, con il passare delle ore.

Sono arrivato a Firenze verso le undici e ripartito verso le diciotto. Non ho avuto moltissimo tempo. Forse anche per questo ho vissuto pienamente ogni parola, ogni gesto, ogni momento passato con i presenti. Da tutti ho avuto qualcosa di particolare e unico, fosse solo una battuta scherzosa.

Come altre volte, anche ieri c’è stato spazio per emozioni intense e inaspettate, ad esempio durante una stravagante ed esilarante lotteria, in cui i biglietti erano carte da gioco e la valletta… aveva la barba. Be’, fra le risate hanno trovato posto pure lacrime di commozione.
E poi, l’inevitabile e temuto momento del canto corale! Ogni volta si progetta di trovare una canzone da cantare insieme, magari adattandone il testo alla situazione.
Ci si illude di riuscire ad organizzare le cose in modo che tutto fili liscio. In realtà alla fine la performance è degna di una banda di marinai ubriachi, per quanto il rigorosissimo e professionale maestro (io) si affanni a dare sobrie ma puntuali direttive ("E allora, cazzo! sembrate una mandria di mucche col mal di pancia! su, riprendiamo da lì… come, lì dove? ma guardate sul coso… sì, sul comeschiama, il foglio… ecco lì… perché tu non canti" e via dicendo).

I saluti prima di lasciarsi lasciano sempre un senso di vuoto, come se si fosse dimenticato qualcosa. Ed è così, si è dimenticato un pezzo di cuore là dove gli altri sono rimasti. Oltre allo zaino contenente il biglietto del treno che ho dovuto tornare a recuperare!

L’andata l’ho fatta su un comodo e veloce EuroStar. A parte i bagni, che sono sempre più scalcinati, in quel treno l’ambiente è decisamente asettico, a partire dalle disposizioni date affinché i passeggeri tengano basse le suonerie dei cellulari per non disturbare il professionista o il pezzo grosso in viaggio. Dubito che sia fatto per non svegliare l’extracomunitario in viaggio da prima dell’alba…
Nel silenzio tutti tengono le distanze, si fanno gli affari loro guardando il meno possibile gli altri viaggiatori, sbuffando quando qualcuno fa casino. Ogni tanto qualcuno fa una telefonata che nessuno può fare a meno di sentire.
Il ritorno, invece, l’ho fatto su un intercity proveniente dalla Calabria, un treno di concezione più vecchia, ancora diviso in scompartimenti. Spesso incontro viaggiatori che dal Sud salgono verso l’Emilia o il Piemonte (il treno è diretto a Torino), carichi di bagagli e diretti verso novità a volte positive a volte meno.
Su questo treno l’atmosfera asettica sparisce. Il riserbo dura poco. Per una ragione o per l’altra vengo coinvolto in conversazioni con gli altri passeggeri. Ed è sempre un piacere raccontarci piccoli momenti delle nostre vite, che, di solito distanti centinaia di chilometri, si incrociano nel ristretto spazio di uno scompartimento.
Ieri una coppia di calabresi, madre e figlio, mi raccontavano le disavventure famigliari che li hanno portati a sorbirsi una dozzina di ore di viaggio per raggiungere Alessandria. Un anziano, pure lui calabrese ma residente da oltre cinquant’anni ad Asti, narrava in modo appassionato della sua gioventù, della miseria che ha affrontato, della speranza riposta nell’emigrazione al Nord, di quanto ha dovuto lavorare per raggiungere la stabilità economica. Pur rimanendo legato alle sue origini mi diceva che ormai è diventato piemontese, al suo paese natale non riesce a stare più di una decina di giorni.
Insomma, storie semplici, per nulla epiche (ma forse è solo questione di punti di vista). Storie che sono soprattutto pretesti per sentirsi vicino agli altri, per accomunarsi a loro, per far nascere un affetto sia pur temporaneo.
Al mio arrivo a Firenze nessun passeggero mi ha degnato di uno sguardo.
Al ritorno, prima di scendere a Voghera, tutti i miei compagni di viaggio mi hanno salutato con calore.

Al bar ci sono sempre Aloisio e Tex. Squilla il cellulare di Tex

– Pronto? Come? Mi porti le pecore? Quali pecore?

– …

– Ma…

– ….

– Sì, sono io E.B., ma le pecore…

– …

– Va bene, va bene.

Tex ci guarda, con l’aria smarrita.

– Dice che domani mi porta le pecore

L’aria smarrita l’assumiamo anche Aloisio ed io

– Ma quali pecore?

– Non lo so, ma insiste che le pecore le deve portare a E.B., che sono io!

Tex abita vicino a casa mia e se un giorno guardando dalla finestra vedrò passare un gregge capirò.