Essere e appartenere

Ogni giorno il tempo che ho per me sembra diminuire e mi attacco a quello che rimane come uno di quei vecchi avari dickensiani alla borsa dell’oro, fuggendo da chi chiede di condividerne una parte. E proprio come quei taccagni spesso quel tempo non lo spendo. Lo faccio diventare un’isola nel fluire cosmico e riempio quell’isola di note.
Prendo la chitarra (o il mandolino, o quello che mi capita di saper suonare) e faccio musica per me stesso. Amo sentire, nel silenzio turbato dalla TV che mio padre guarda e dagli uccelli che affollano gli alberi intorno a casa mia, il perdurare delle note nell’aria, il loro mischiarsi in armonie. A volte mi faccio prendere e mi canto addirittura una canzone (e qui la poesia diventa farsa, la voce essendo quel che è).
Come chi mi conosce sa, le occasioni per far musica con e per altri non mi mancano, ma ogni tanto ho bisogno di private emozioni. Ci sono canzoni che riescono ogni volta a commuovermi, a portarmi sull’orlo delle lacrime, come "Who Will Watch The Home Place".

Nel giugno 1999 il mio amico Franco mi convinse ad andare ad una serata musicale organizzata dalla BCMAI (Bluegrass and Country Music Association of Italy) presso il parco dell’Italtel a Settimo Milanese. L’evento principale probabilmente era il concerto di una band di country-rock, ma a me interessava quello, in prima serata, di Laurie Lewis, una cantante e violinista di musica acustica. Non ne sapevo nulla, ma ero decisamente curioso.
Il sole era tramontato da poco, c’era ancora luce quando Laurie ed i suoi amici musicisti iniziarono. Il pubblico era sparso per il parco, seduto sull’erba a farsi far salassi dalla numerose zanzare. Qualcuno passeggiava per pittoreschi sentieri fra gli alberi. Non era l’atmosfera adrenalinica e frenetica dei concerti pop, somigliava di più, diciamo, ad una festa in famiglia.
Per un po’ feci fatica a sentire. Siamo abituati a muri di suono da spaccare i timpani, mentre quelli suonavano in punta di dita. Senza l’infido intermediario dell’alto volume fu la pura musica a passare dalle mie orecchie al cuore.
La fine degli anni novanta fu un periodo inquieto per me, e proprio in quel 1999 mi aspettava una novità grande e bella. Ma doveva ancora venire. La serenità che mi diede quella musica in quel luogo, in quella sera, ne fu una sorta di prologo.

Verso la fine del concerto Laurie Lewis presentò un pezzo con un calore particolare, una canzone che non conoscevo. Era un valzer lento, quasi uno standard della country music. Mi colpì la partecipazione con cui i musicisti lo interpretarono. Non si trattava di esporre i loro talenti, il loro virtuosismo. Piuttosto, di unire voci e strumenti per creare pura emozione. Il finale solo vocale mi fece venire i brividi, in quella calda sera di giugno, mi trasmise la stessa sensazione che provo a guardare un cielo limpido pieno di stelle. Gioia, serenità e malinconia.

Per chi può e vuole ascoltarlo metto qui il video di YouTube di quel brano (mi scuso con Simo e tutti coloro che avranno difficoltà a sentirlo)

Ecco il testo:

Who Will Watch The Home Place?
(Kate Long)

Leaves are falling and turning in showers of gold
As the postman climbs up our long hill
And there’s sympathy written all over his face
As he hands me a couple more bills

Who will watch the home place?
Who will tend my heart’s dear space?
Who will fill my empty place
When I’m gone from here?

There’s a lovely green nook by a clear-running stream
It was my place when I was quite small
And its creatures and sounds could soothe my worst pains
But today they don’t ease me at all

Who will watch the home place?
Who will tend my heart’s dear space?
Who will fill my empty place
When I’m gone from here?

In my grandfather’s shed there are hundreds of tools
I know them by feel and by name
And, like parts of my body, they’ve patched this old place
When I move them they won’t be the same

Now I wander around touching each blessed thing
The chimney, the table, the trees
And my memories swirl ‘round me like birds on the wing
When I leave here, oh, who will I be?

Who will watch the home place?
Who will tend my heart’s dear space?
Who will fill my empty place
When I’m gone from here?

ovvero…

Le foglie cadono, diventano pioggia dorata
mentre il postino si arrampica lungo la nostra collina
mi guarda con simpatia
mentre mi allunga un altro paio di fatture.

Chi baderà alla mia casa?
Chi accudirà il luogo caro al mio cuore?
Chi riempirà il posto che lascerò vuoto
quando me ne sarò andato da qui?

C’è un delizioso angolino vicino ad un limpido ruscello,
era il mio posto quando ero proprio piccolo.
Le creature ed i suoni che lo popolavano potevano placare i miei dolori peggiori,
ma oggi non mi rasserenano per niente.

Nel capanno di mio nonno ci sono centinaia di attrezzi.
Li conosco al tocco, li conosco per nome.
Come parti del mio corpo hanno tappezzato questo vecchio luogo,
quando li traslocherò non saranno più gli stessi.

Mi aggiro qui intorno, toccando ogni benedetta cosa,
il tubo della stufa, il tavolo, gli alberi…
ed i ricordi mi girano intorno come uccelli in volo.
Quando lascerò questo posto, chi sarò io?

Ci sono persone per cui muoversi, cambiare luoghi è vita. Per altre, invece, è morte.
Dipende dalla storia di ciascuno.
Probabilmente io faccio parte della seconda categoria, perché ogni volta che leggo, che ascolto le parole dell’ultima strofa davvero mi assale una gran malinconia, come se fossi io il protagonista della canzone, che deve lasciare il posto in cui è nato e vissuto (probabilmente per mancanza di soldi).
Mi immagino a girare per stanze e cortili, sfiorando le mille scalcinate cianfrusaglie accumulate dai miei genitori, dai miei nonni, dai nonni dei nonni. Sì, anche se li portassi con me non sarebbero le stesse.
Se andassi ad abitare in un appartamento a Milano sarei ancora io?
Sì. E no.